19 gennaio 2012

Quando decollò il dirigibile del Rock ...

Quando decollò il dirigibile del Rock

Dalle pieghe del tempo perduto ho salvato soltanto tre oggetti. Il primo è l’ultimo regalo di Babbo Natale, un piccolo locomotore marrone della Lima, l’E 424143, tirava vagoni che non ho più ma sui quali ho viaggiato fino ai dieci anni. Il secondo è un’automobilina rossa, una Mini Cooper S da rally della Corci Toys, che guidavo quando scendevo dal treno, quasi sempre su terreni accidentati. Il terzo è un disco, il primo che ho comprato in vita mia, un 45 giri in vinile dell’Atlantic, uscito in Italia nel gennaio del 1970.

Facevo la terza media, non si può dire che fossi un grande esperto di musica, ne venivo dalle lacrime di Bobby Solo, dal cuore tachicardico di Little Tony e, massimo del rock, dalla tipa che Mal non riusciva a guardare perché i suoi occhi erano fari abbaglianti e lui c’era davanti. Avevo da poco scoperto Lucio Battisti, e però intuivo che il mondo musicale non poteva fermarsi a Un’avventura.

Il mio compagno di banco era un tipo strano, il primo della classe e mezzo hippy già in seconda media. In terza si è presentato con i capelli lunghi fino alle spalle, maglione largo con cinturone sopra e jeans scoloriti talmente scampanati che non gli ho più visto i piedi per tutto l’anno scolastico. Adesso — non faccio il nome perché ho paura che mi arresti — è diventato un rigoroso magistrato molto famoso a Genova e non solo. Un giorno di quel fantastico gennaio, mi invita a casa sua a studiare e mi fa: «Io di solito studio con la musica di sottofondo, ti dispiace se metto un disco?». «Figurati». «Hai qualche preferenza?». E io, per fare quello che se ne intende: «Ce l’hai Yeehhh di Mal dei Primitives?». Mi fulmina con lo sguardo, peggio della tipa con gli occhi abbaglianti. «No», risponde. «Ma questo è meglio», e tira fuori da una libreria dove erano impilati almeno un centinaio di Lp, un disco con la copertina in bianco e nero con un dirigibile in fiamme in primo piano e in alto a sinistra un nome scritto in rosso: Led Zeppelin.

Alla faccia del sottofondo. Parte a manetta con il riff pirotecnico di Good Times Bad Times, il brano che apre il disco e che ha contribuito pesantemente a cambiare la storia del rock e totalmente me, almeno per quel che riguarda la musica. La Musica. Lui, quello del riff pirotecnico, era Jimmy Page. La Voce quella dell’etereo Robert Plant, una mirabile fusione di urlo e lamento, di dolore e orgasmo, di maschio e di femmina, un cocktail ad alta gradazione fonica composto da due parti di Janis Joplin, una di Steve Winwood e una di Jack Bruce. Il basso era quello di John Paul Jones, considerato, nell’ambiente del «British Blues», sinonimo di session man. La batteria quella di John Bonzo Bonham, ovvero la Potenza. Nessuno nella storia del rock ha mai più suonato la batteria come lui. Nessuno, nella storia del rock, ha mai più bevuto tanto alcol quanto lui. Il rock and roll è morto quando è morto John Bonham. E questo non lo dico io, lo dice Billy Joel, e Plant gli fa eco: «Bonzo diceva sempre di essere il più grande batterista delmondo. Quando lo sentivamo suonare sapevamo che era vero». È morto a trent’anni, soffocato dal suo stesso vomito, completamente ubriaco per essersi scolato quaranta bicchieri di vodka.

Quel giorno non abbiamo studiato, come fai a studiare quando sei folgorato da Communication Breakdown, che ti attraversa il corpo e la mente come una scossa elettrica da 10.000 volt, oppure quando gli Zeppelin rallentano i toni come in Your Time Is Gonna Come o Black Mountain Side e senti che Bonzo per un po’ fa il bravo batterista, rulla, mantiene un ritmo morbido, direi quasi delicato, e poi non ce la fa più e inizia a picchiare duro fino a sfondare i drums e a far volare i piatti. Come fai a studiare quando ti si spezza il cuore con Babe I’m Gonna Leave You già cantata da Joan Baez, e con Plant che sa essere più dolce di lei, oppure ascoltando la «loro» versione di You Shook Me di Willie Dixon, che annichilisce quella di Jeff Beck, per ammissione dello stesso Jeff Beck.

Sono uscito da quella casa che ero in estasi. Come teleguidato dal ritmo incalzante della batteria di Bonham,mi sono fiondato in un negozio di dischi. Avevo unicamente due problemi: non avevo lo stereo (solo un mangiadischi della Geloso che mio padre teneva in macchina) e ottocentotrenta lire in tasca. Bastavano, non bastavano? Chissà. Non bastavano per un LP, ma erano quasi sufficienti per il 45 giri (Good Times Bad Times lato A, Communication Breakdown lato B: buttali via!) che costava ottocentocinquanta lire. Vada per quello ho pensato, che intanto lo ascolto nel mangiadischi. L’ho chiesto insieme a venti lire di sconto. «Non l’abbiamo», mi ha detto il solerte commesso. «Comunque è uscito l’anno scorso, se vuoi c’è il nuovo, il 45 giri è appena arrivato». Il nuovo? Era il gennaio del 1970 quando ho comprato il mio primo disco, quello che ho salvato dalle pieghe del tempo perduto, e che ora sto guardando, girando e rigirando tra le mani. Ci sono «loro» che suonano su un palco, chissà quale. Plant al centro, microfono in mano vestito di rosso. Page in primo piano tutto piegato sulla chitarra. Jones in fondo col suo basso illuminato da una luce gialla, quasi psichedelica. Bonham, dietro, tutt’uno con la sua batteria. Sotto una scritta gialla, grande, LED ZEPPELIN, sopra, a sinistra, anch’esso in giallo il titolo della canzone lato A: Whole Lotta Love. Whole Lotta Love, non so se mi spiego. E se non mi spiego posso aggiungere che il riff di apertura di Whole Lotta Love, nonostante il mio Geloso, mi ha dato le vertigini, e che insieme a quelli di Smoke on the Water, Satisfaction e mettiamoci pure You Really Got Me è quanto di più potente, diabolico, viscerale e irresistibile vi può essere nella storia del rock.

Un mese più tardi avevo barattato con un compagno di classe il mio album Panini campionato 1969-70 quasi completo (mancava solo Scopigno) con una specie di batteria, poco più di un giocattolo, e mi sentivo Bonzo Bonham, due mesi dopo mio padre l’aveva distrutta, ma non m’importava: avevo scoperto la Musica. Il problema era la Musica che non si lasciava scoprire. Quella che trasmettevano per radio, fatta eccezione di qualche spiraglio di luce acceso da Per voi giovani, era il buio profondo. Ascoltavo ogni tanto Radio Luxemburg, ma solo di notte perché di giorno non c’era verso di catturarla. Per fortuna non ero solo, ma si viveva come carbonari, non si avevano notizie sui nuovi gruppi né sulle nuove uscite. Nascevano leggende metropolitane alimentate da improbabili passaparola. Le uniche fonti giornalistiche erano l’introvabile «Melody Maker» e «Ciao 2001». «Ciao 2001», vi rendete conto? Eppure, nonostante questo, dopo quel disco ce ne sono stati altri, tra i migliori della mia vita e credo anche di quella del rock: i Crosby Stills Nash con il loro primo album, i Creedence Clearwater Revival con Proud Mary, I Beatles di Abbey Road, gli Who di Tommy, i Rolling Stones di Let It Bleed, i Chicago di Chicago Transit Authority, i King Crimson di In The Court of The Crimson King e Baffone Frank Zappa con Hot Rats. Tutti datati 1969, come il dirigibile in fiamme dei Led Zeppelin che ha incendiato la storia del rock, e il mio cuore.

Lorenzo Licalzi su La Lettura del Corriere della Sera

Nessun commento:

Posta un commento